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Market review n.21 di Simone Siragusa

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Mentre il presidente Trump visita l’oriente cercando di tamponare lo slogan “America first” rispetto alla Cina e ai suoi alleati giapponesi, non possiamo non vedere la continua perdita di leadership da parte degli USA. Se infatti questi ultimi rimangono al centro del mercato finanziario (con Hong Kong e Singapore ormai nuovi centri finanziari globali), la Cina si è ormai posta da leader in quello che diventa un nuovo – ma già conosciuto- modello di sviluppo che è entrato ormai a fare parte del DNA di diversi paesi emergenti. Qualche decennio fa si pensava che il libero mercato sarebbe stato il grimaldello per liberare i paesi ex-comunisti ed emergenti e nessuno avrebbe scommesso sul modello centralizzato che, anche a detta dell’Europa, per molti ha fallito. Oggi invece il trend è completamente cambiato e molti pensano che il modello cinese di partecipazione statale sia addirittura più sostenibile di quello americano. La Cina si è imposta anche come modello su alcuni grandi paesi emergenti di cui Russia India e Turchia sono solo tre esempi di come l’influenza della potenza nordamericana sia diventata via via più blanda a favore del modello cinese. Il Times cita addirittura Friedman nello spiegare che la realtà cinese non è mai in realtà stata compresa fino in fondo neanche da un premio Nobel e, la complessità di una cultura millenaria così differente da quella europea ed occidentale ci porta veramente lontano da vederne e comprenderne gli sviluppi futuri. La cultura occidentale alla Friedman ha sempre collegato la loro crescita alla libertà e alla democrazia,  il Times mette in luce tutte le limitazioni di una vera democrazia rappresentativa e la presenza di lobby e percezione dello stato completamente differenti da parte della società cinese. Il pericolo è che quindi manchi qualcosa oggi al modello occidentale e, questo grande assente è lo Stato. Basti pensare che alla produzione di tecnologia e alla produzione di cellulari e alla futura ricerca sull’Intelligenza Artificiale. L’articolo cita le difficoltà di Obama nel salvare la Ford e di contrasto, la facilità di nuove assunzioni durante la crisi da parte dello stato Cinese. E questo ci porta a pensare che la via imboccata dagli USA di acquisto di titoli tossici e pricing del rischio totalmente falsato sia arrivato alla fine. Trump ha promesso un innalzamento dei tassi di interesse ai risparmiatori americani, ma una stima precisa degli effetti di un vero innalzamento dei tassi porterebbe molte aziende con un debito molto elevato al fallimento. Il rapporto debito su utile lordo è al massimo storico dalla bolla del 2000. Se pensiamo al livello di record storico degli utili, secondo il Fondo monetario internazionale anche mantenendo questo livello di tassi ma con un livello di utili medio (e non al massimo di oggi), il 10% delle aziende non sarebbe in grado di coprire la spesa per interessi.  Il pericolo è che le aziende americane si trovino a fare aumenti di capitale a forte sconto. L’analista di SocGen’s Andrew Lapthorne sottolinea inoltre come la leva finanziaria del listino USA sia incredibilmente alta per il ciclo di espansione che stiamo vivendo e molte aziende con grande cassa stanno in questo modo mascherando problemi significativi grazie ai tassi favorevoli. Sono state nazionalizzate le perdite delle grosse aziende e il “tracking down” dell’economia liberale non c’è stato. Inoltre le istituzioni too big to fail sono ancora una minaccia, come se la crisi del 2008 non abbia insegnato nulla.

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