Moody’s e S&P hanno espresso crescenti preoccupazioni per le banche italiane a causa dell’eccessiva esposizione sul debito pubblico domestico e il peso ancora rilevante degli NPL. Condivide questo giudizio negativo?
Allo stato attuale è innegabile che i numeri dei crediti deteriorati del sistema bancario italiano siano tra i peggiori in Europa: va peraltro considerato che le banche italiane non hanno beneficiato di interventi di sistema, attuati invece in altri Paesi Europei (es. Spagna). Le conseguenze della dura crisi che dal 2007 ha colpito l’Italia, hanno fatto sì che le banche abbiano ancora in portafoglio ingenti stock di NPL, che pesano in termini di costi operativi per la gestione, di costo per gli accantonamenti e per l’assorbimento patrimoniale, impedendo di raggiungere livelli più elevati di redditività e inducendo particolare prudenza sul fronte delle nuove erogazioni creditizie. La crisi di alcune banche ha comportato anche l’intervento, molto costoso, degli istituti più sani in termini di sostegno al sistema (Fondo Interbancario, Fondo Atlante, ecc.). Se a questo si aggiunge l’andamento del PIL che, seppur migliore delle attese, ha una crescita modesta rispetto a quella degli altri grandi Paesi europei, non possiamo dire che il quadro sia particolarmente roseo. Tuttavia va evidenziato che lo stock delle sofferenze ha visto da inizio anno un trend positivo di riduzione e che le banche, anche per diretta sollecitazione della BCE, sono impegnate in operazioni di cessione e di gestione attiva dei crediti deteriorati. Le nostre analisi, come ad esempio lo studio ‘Deloitte European Deleveraging Report’ condotto con cadenza semestrale in tutta Europa, confermano questo trend di riduzione, evidenziando come il nostro Paese sia nel 2017, per il secondo anno consecutivo, il mercato più attivo nella cessione di NPL in tutta Europa. Come si può intuire, l’esito di queste operazioni sarà determinante per modificare il giudizio nei nostri confronti.
L’Europa continua ad essere imbrigliata dalle instabilità politiche a livello nazionale pur in un quadro macro positivo. Peseranno queste incertezze sul 2018?
Siamo in un momento delicato: la stabilità finanziaria è migliorata ma permangono in Europa degli elementi di vulnerabilità, che potrebbero compromettere la ripresa mettendo a rischio la crescita. Oltre alle situazioni di instabilità politiche da lei citate, siamo di fronte a uno scenario di inflazione bassa, nonostante le copiose iniezioni di liquidità da parte della BCE, e abbiamo ancora da risolvere importanti problemi strutturali. Restando, ad esempio, solo in ambito finanziario, l’Fmi ha recentemente osservato come nove banche, delle 30 istituzioni classificate come globali dalla vigilanza, non riusciranno a raggiungere una redditività sostenibile entro il 2019. Ampliando lo scenario, il sistema è messo sotto pressione da una serie di sfide comuni che già oggi hanno assunto dimensione rilevante e sono destinate a intensificarsi nei prossimi anni e che per essere gestite adeguatamente richiedono di andare oltre la sola dimensione nazionale. Immigrazione, terrorismo, innovazione, lavoro, welfare, ambiente ed energia sono le tematiche su cui è richiesta una riflessione di più ampio respiro che non può rimanere compressa nei confini nazionali. Nello stesso tempo, si prospetta uno scenario complesso per cui è evidente che all’Europa serva un cambio di marcia.
Alla luce della crescita nell’Eurozona, pur con un’inflazione ancora fredda, crescono le spinte per un’uscita graduale dal QE. L’Italia secondo lei è pronta ad affrontare il nuovo scenario?
E’ proprio di questi giorni la notizia del rallentamento del cosiddetto ‘quantitative easing’, ovvero il programma mensile di acquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea. Dagli attuali 60 miliardi al mese si passerà a 30 miliardi, a partire da gennaio 2018, “estendendone la durata di 9 mesi, fino a settembre del 2018. Si è scelta una soluzione di compromesso. Da una parte infatti ci sono le pressioni di Paesi come la Germania e l’Olanda, convinti che il Qe abbia raggiunto i suoi obiettivi, dall’altra ci sono Paesi come l’Italia, vulnerabili e che rischiano di trovarsi indeboliti dalla fine del QE. L’Italia, infatti, benché viva oggi un momento positivo – una sequenza di tre trimestri di crescita congiunturale allo 0,4% che non si registrava dal 2009 – al momento potrebbe non essere completamente pronta ad affrontare il nuovo scenario.
Dal suo osservatorio privilegiato come giudica le prospettive delle imprese italiane molte delle quali hanno dimostrato di saper reagire alla crisi e pensa che i PIR potranno dare un contributo positivo alla loro patrimonializzazione e crescita?
Mi lasci ricordare qualche elemento distintivo del nostro Paese che mi porta ad essere fiducioso sulle prospettive delle nostre aziende manifatturiere. In Italia ci sono più di 400.000 PMI manifatturiere, laddove i nostri “competitor” Francia e Germania si fermano a circa la metà, in 8 settori manifatturieri su 14 l’Italia si pone al primo o al secondo posto per competitività. Il marchio “made in Italy” è nelle posizioni alte delle classifiche dei brand più riconosciuti, la bilancia commerciale ha raggiunto nel 2016 il più elevato surplus della storia. Se poi a quanto detto si aggiunge che i risparmi delle famiglie, nonostante la crisi, nell’ultimo decennio o poco più sono stati i più alti al mondo in termini percentuali sul reddito, ecco che si ottiene un altro elemento fondamentale. In questo quadro favorevole l’introduzione nel 2016 dei PIR ( Piani individuali di risparmio ) rivolti ad aziende di medio piccole dimensioni e che offrono un beneficio fiscale all’investitore, può rappresentare la svolta per una profonda trasformazione della struttura finanziaria delle aziende manifatturiere, oggi troppo dipendente dal credito bancario a breve termine, con una apertura all’ equity e a strumenti di debito a medio lungo termine, che troverà la linfa da un nuovo indirizzo del risparmio privato rivolto ad un capitale di rischio con un orizzonte temporale di medio lungo termine.