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“Razionalizzare la spesa assistenziale” Intervista al Prof. Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi & Ricerche - Itinerari Previdenziali

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Secondo il Pensions Outlook 2016 dell’Ocse, la spesa pensionistica pubblica italiana ha pesato sul Pil il doppio rispetto alla media Ocse, mentre le attività dei fondi integrativi risulta pari all’8,7% del Pil, ponendo il nostro Paese in fondo alla classifica. Qual è il suo commento? 

Il confronto con gli altri Paesi richiede sempre doverose premesse. Oltre alle differenze in atto nei vari sistemi, occorre considerare che, negli ultimi anni, molti Paesi si sono dovuti confrontare con l’(in)sostenibilità dei propri conti pubblici. Anche l’Italia, che come si ricordava secondo lo studio l’Ocse nel 2015 aveva ancora il secondo più elevato livello di spesa pubblica per pensioni in relazione al PIL – il 16% a fronte dell’8,4% fissato dalla media Ocse – nonostante un lungo cammino di riforme volte a impedire il collasso del sistema. Bisogna precisare però che nei dati per spesa per pensioni comunicati a istituzioni e organi di ricerca internazionali sono comprese voci che in realtà fanno capo all’ambito dell’assistenza e non esclusivamente a quello della previdenza, come fanno molti Paesi cui veniamo paragonati. Ad esempio, le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali vengono imputate alla spesa per pensioni e non, come sarebbe corretto, alla voce “sostegno alla famiglia” o “esclusione sociale”.  Scorporando dalla spesa pensionistica la quota di trattamenti puramente assistenziali e le tasse, la percentuale italiana risulterebbe quantomeno in linea con la media UE.

Come giudica la situazione del welfare italiano, anche sulla base di quanto emerso dal Quarto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano?

A differenza di quanto spesso si afferma – cioè che in Italia si spende molto meno per il welfare rispetto agli altri Paesi europei – la spesa per prestazioni sociali nel 2015 ammonta a 447,396 miliardi di euro e incide per il 54,13% sull’intera spesa statale, comprensiva degli interessi sul debito pubblico, e del 27,34% rispetto al PIL, cioè uno dei livelli più elevati in Europa. I dati smentiscono il luogo comune di alcune forze sociali e politiche secondo cui in Italia si spende meno che negli altri Paesi per il welfare; non solo spendiamo di più ma se rapportiamo la spesa ad alcuni indicatori raggiungiamo la vetta di tutte le classifiche: da noi l’evasione fiscale è stimata al 17% contro una media europea del 14%. Ma nelle nazioni che spendono di più in welfare la “slealtà fiscale” pesa tra il 9 e l’11%; se poi nell’evasione fiscale consideriamo le attività criminali, il livello aumenta al 27% con punte oltre il 40% per alcune regioni del Mezzogiorno. Stesso discorso se rapportiamo la spesa per welfare al tasso di occupazione e alla produttività che sono molto più bassi rispetto ai Paesi che spendono di più in welfare. Insomma spendiamo di più di quello che ci possiamo permettere. È evidente che si tratta di un onere difficilmente sostenibile in futuro, che già ora limita gli investimenti pubblici in tecnologia, ricerca e sviluppo, unica via per garantire la competitività del Paese e un futuro più favorevole per le giovani generazioni già gravate da un abnorme debito pubblico.

Quale invece il ruolo del cosiddetto secondo pilastro della previdenza? E’ possibile o meno anche in questo caso un confronto con gli altri Paesi in termini di sviluppo?

Anche per quanto riguarda il confronto Ocse sul patrimonio dei fondi pensione bisogna fare le opportune precisazioni. Si tratta infatti di realtà tra loro ben diverse, dove la previdenza complementare potrebbe essere di fatto obbligatoria per tutti i lavoratori o paraobbligatoria (come nel caso del Regno Unito o dell’Olanda). In Italia l’adesione rimane libera e volontaria e il sistema pensionistico pubblico dei buoni tassi di sostituzione netti, che variano (rispetto all’ultimo reddito) tra il 60% dei lavori autonomi e il 70% dei dipendenti (con buone carriere possono arrivare anche al 74%). Da qui, rispetto ad altri Paesi in Italia si sente meno la necessità di iscriversi ai fondi pensione. Bisogna poi considerare che lo sviluppo della previdenza complementare dipende inevitabilmente dalla struttura del sistema pensionistico pubblico, dai tassi di sostituzione offerti e dalle modalità di adesione ai fondi pensione (obbligatorietà o meno di iscriversi). Il nostro sistema pubblico offre dei buoni tassi di sostituzione e l’adesione alla previdenza complementare è libera e volontaria, d’altronde non potrebbe essere altrimenti considerato l’elevato livello di contribuzione al sistema pubblico (il 33% dei lavoratori dipendenti è la percentuale più alta che si riscontra nel confronto internazionale).

Quale a suo avviso le prospettive per il futuro?

Prima di pensare a proposte poco logiche, come la pensione di cittadinanza di 500 euro proposta da alcuni parlamentari, preoccupati delle modeste pensioni che i contributivi percepiranno occorre mettere mano alle anomalie dell’attuale sistema – penso in particolare ad alcuni requisiti del metodo contributivo introdotti dalla riforma Monti-Fornero  e soprattutto investire per aumentare l’occupazione giovanile con serie politiche attive e non con le ritrite politiche passive e aumentare anche i salari e redditi con opportune politiche di “credito di imposta” per le aziende. Le risorse ci sarebbero: basterebbero razionalizzare la spesa assistenziale che aumenta ogni anno del 5,8%, basata sulle dichiarazioni dei redditi di un Paese con il 30% di sommerso e di lavoro grigio, quando non nero, molto diffuso.

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